Quando un giorno incontrano di nuovo Il Matto, c’è una disputa tra i due. Zampanó uccide Il Matto. Gelsomina è disperata; con la morte del Matto, muore anche la gioia, la speranza e, in definitiva, la vita per Gelsomina. Alla fine, Zampanó se ne va e lascia Gelsomina da sola.
Anni dopo. Zampanò sente una donna cantare. Canta la canzone che Gelsomina ha sempre suonato alla tromba. Da questa donna apprende che Gelsomina è morta. È molto triste, mangia a malapena e piange molto. Una mattina, non si è svegliata.
Per la prima volta, Zampanó piange, incosciente di ciò che ha fatto a sé stesso e agli altri. Lui cerca di scaricare la sua rabbia bastonandosi in un bar. Alla fine, è sdraiato sulla sabbia vicino al mare.
Possiamo vedere questa storia come una grande metafora. La strada della vita di Gelsomina e Zampanò è destinata a incontrarsi, i percorsi e le diramazioni rappresentano le diverse possibilità che ci sono nella vita. Gelsomina è la personificazione dell’amore, della curiosità, dell’ingenuità e Zampanó è gretto, rude, rappresenta la forza e il desiderio materiale. Il Matto rappresenta la speranza e quando è ucciso la speranza muore con lui.
„La Strada“ mostra il mondo affascinante dei giocolieri, ma anche un mondo di periferie povere e case distrutte. Il film dipinge l’assurdità dalla vita. La tendenza alla mancanza di meta e la causalità degli eventi nella vita di Zampanò e Gelsomina cercando un proprio posto sono strutture presenti in ogni strato sociale. Ognuno porta alcune di queste tratte del carattere, la questione è quali decisioni ognuno prende. Nel caso di Zampanò vediamo un uomo le cui azioni crudeli lo raggiungono e arrivano alla consapevolezza facendolo sentire solo e privo d’aiuto.
Quello che possiamo imparare è che i nostri tratti del carattere non devono definire le nostre azioni. Sono le strade che prendiamo che contano.
E Gelsomina non riesce a capire a che cosa lei stessa possa servire finché Fellini non ci dimostra quanto lei abbia cambiato o meglio reso vivibile la vita del nostro protagonista maschile, Zampanò.
Gelsomina non si accorge della sua qualità più preziosa che presenta durante tutto il viaggio accanto al suo rozzo compagno: è fedele, rimane sempre al suo fianco – una caratteristica che il Matto, a differenza di Zampanò, riconosce.
Il Matto e Zampanò: tutt’e due artisti di strada, tutt’ e due – come dicono – “non hanno bisogno di nessuno”. Fanno lo stesso lavoro e condividono lo stesso stile di vita. Vi sembrano simili? Non potrebbero essere più diversi. Il Matto non ha bisogno di nessuno perché lui stesso è la sua felicità, è uno spirito libero a cui non interessa ciò che potrebbero pensare gli altri. Non dipende da nessuno.
Zampanò invece è diverso. Rappresenta la violenza, l’egoismo e l’ignoranza. È la personificazione del narcisismo – sta bene se può far dipendere le altre persone da lui. È così pieno di sé stesso che non si rende nemmeno conto di respingere la cosa più cara che abbia, l’unica persona che lo fa stare veramente bene: Gelsomina.
Gelsomina è molto di più di una assistente stupidina per il rozzo Zampanò. Lo rende grande. Ma Zampanò non l’ha mai riconosciuta come il tesoro che è veramente – fino a quando la perde. Preferisce mentire a sé stesso – una decisione che rimpiangerà. Alla fine della sua strada si trova solo su una spiaggia. Addolorato, devastato, un uomo distrutto.
Fellini ci fa capire quanto ogni essere umano sia prezioso e quanto un’altra persona possa arricchire la nostra vita. Ci insegna due cose: ognuno deve essere la sua felicità, ma questa felicità si moltiplica se la condividiamo con una persona che ci ama incondizionatamente e che ci accompagna sulla nostra “strada” – come avrebbe fatto Gelsomina, se solo Zampanò l’avesse acconsentito… Ognuno serve a qualcosa. Gelsomina serviva a Zampanò. Ora, senza di lei, per lui è tutto inutile.
In “La strada” di Federico Fellini vediamo come protagonista Gelsomina, una donna che vive in condizioni di estrema povertà insieme alla madre e ai suoi fratelli. Nella scena iniziale del film, il giocoliere girovago Zampanò dà dei soldi alla madre di Gelsomina perché vuole che la figlia lo accompagni nei suoi spettacoli in giro per l’Italia. Ed è qui che incomincia quella che per Gelsomina sarà una strada tutta in salita.
Vive girovagando per l’Italia a bordo di un carro, dove i due dormono; riceve continuamente ordini dal rozzo Zampanò e se non riesce in quello che le viene ordinato, viene malmenata. Viene anche abbandonata una sera in mezzo alla strada, mentre Zampanò sperpera i soldi guadagnati con gli spettacoli in donne e vino. Stanca dei tanti soprusi che è costretta a subire, fugge, ma quando Zampanò la ritrova, non riesce a fare a meno di tornare a lavorare per lui.
A questo punto vi è un cambiamento nei due personaggi principali. Da un lato Gelsomina sembra quasi diventare più matura, complice anche una interessante conversazione con un altro saltimbanco, il Matto; dall’altro il personaggio di Zampanò finisce per dimostrarsi sempre più rozzo e senza limiti: ruba all’interno di un convento e prima passa una notte in carcere per aver tentato di uccidere il Matto, poi in seguito lo ucciderà.
Qui le strade di Gelsomina e Zampanò si dividono: lei muore e quando il rozzo saltimbanco lo viene a sapere, scosso dalla notizia, dopo aver provocato una rissa, piange ubriaco.
Una meravigliosa Giulietta Masina nei panni di Gelsomina, prova in tutti i modi a smuovere la coscienza di un altrettanto sublime Anthony Quinn, Zampanò. Cerca continuamente la sua approvazione, dimostrazioni di affetto, ma non ottiene mai nulla in cambio. Forse solo con la morte di Gelsomina, Zampanò potrà finalmente imboccare la strada giusta.Anche perché come dice Il Matto a Gelsomina “se non ci stai te con lui, chi ci sta.”
Non possiamo non meravigliarci della modestia che traspare da questa citazione pronunciata dall’artefice di una trentina di pellicole cult, il regista Federico Fellini.
Con Federico Fellini non sono nate solo opere d’arte filmiche, fonte di ispirazione e oggetto di studio di tanti registi e attori nazionali ed internazionali, ma anche neologismi della lingua italiana come felliliano, vitellone, paparazzo, dolce vita e amarcord, che hanno contribuito a diffondere vari cliché sull’Italia e sugli italiani in tutto il mondo.
Se da un lato questi rimandano a stereotipi di connotazione negativa, (il concetto di la dolce vita viene spesso interpretato come metafora di ozio, l’immagine del vitellone come il tipico italiano scansafatiche, mammone e latin lover), d’altro canto questi cliquè hanno reso internazionale l’espressione fotografica ed estetica della genialità artistica italiana.
Federico Fellini è probabilmente il regista italiano più conosciuto fuori dal proprio paese, è stato vincitore di 5 premi Oscar, è stato la voce che ha raccontato al mondo dell’Italia dagli anni ’30 agli anni ’90, partendo dal Fascismo per arrivare a descrivere il caos e il disorientamento degli anni ’90.
Nato a Rimini nel gennaio del 1920, quest’anno ne ricorre il centenario della sua nascita. Una strana coincidenza, proprio nell’anno più strambo dell’ultimo secolo, l’anno dell’inaspettato Covid-19, che sembra essere sorprendentemente idoneo a riscoprire il Fellini visionario, bravo a raccontare del caos, del sogno, dell’abnorme e dei bizzarri comportamenti di massa.
È dunque il momento giusto per riscoprirlo, riavvicinarsi alla sua poetica, apprezzare i suoi film. Federico Fellini credeva che l’arte potesse fare miracoli, trasformare la sconfitta in vittoria, la tristezza in felicità. Ma per poter afferrare questa chance, sia come artista che come fruitore, bisogna essere nella predisposizione giusta, saper applicare una certa igiene di “mente” o di “spirito”, a cui allude lo stesso Fellini già negli anni ‘80 nella sua biografia “Fare un film”. Di fronte al caos scaturito dall’uso incontrollato e commerciale della televisione e dei media scrive: “Sarebbe forse il caso che ogni tanto e per periodi lunghi, la televisione restasse spenta, la radio tacesse, i giornali smettessero di uscire, in modo che ognuno tornasse ad avere il tempo di occuparsi veramente di sé stesso, della propria individualità, magari soltanto per rimettere insieme i pezzi, i brandelli.”
Non dovremmo farlo anche noi prendendo le distanze dalla confusione generale di un’opinione pubblica resa insicura dalle proteste dei negazionisti e complottisti, dalle testate appariscenti dei giornali alla ricerca disperata di espedienti per richiamare l’attenzione di un pubblico ormai coinvolto personalmente nella diffusione di notizie ed opinioni attraverso i social media?
Alcuni dei film più importanti di Federico Fellini possono fare da specchio nel mostrarci scenicamente il caos – si pensi ad “Otto e mezzo”, allo smarrimento di Guido Anselmi di fronte alla produzione artistica del suo prossimo film, alla confusione nella sua vita privata. “Otto e mezzo” è un film di ricordi, sogni, dubbi ed incertezze, dove alla fine affiora la voglia di ritornare alla gioia ingenua e primitiva dell’essere bambini. Non è quello che desideriamo oggi anche noi, dopo tutte le varie forme di limitazione anticovid che condizionano la nostra vita?
Nei film di Fellini possiamo scorgere anche l’origine di fenomeni del presente; si pensi ai truffatori in “Il bidone”, ai loro furbi espedienti, precursori di truffe moderne, non molto diverse da quelle si attuano oggi in internet. Altri film di Fellini ci lasciano invece perplessi, pieni di domande aperte, si pensi a “Casanova” o a “La città delle donne”.
Gli studenti della laurea magistrale Italienisch e Romanistik: Kulturkontakte und Kommunikation presentano qui le loro prime impressioni spontanee dopo la visione dei film di Federico Fellini. Non si tratta dunque di contenuti che fanno riferimento a saggi critici o a una specifica letteratura secondaria, ma brevi testi ispirati da scene o frasi che hanno colpito in particolare l’attenzione degli studenti-spettatori, per la maggior parte appartenenti a una generazione cresciuta in un altro contesto storico-culturale, molto lontano ideologicamente, economicamente e culturalmente da quello in cui sono nate le opere felliliane.
I film presi in esame sono: “Le notti di Cabiria”, “La Strada”, “Giulietta degli Spiriti”, “La dolce vita”, “Otto e mezzo”, “Fred e Ginger”.
Per facilitare la comprensione cliccando sull’apposito link troverete i testi dei podcast.
Buon ascolto e a presto sul Blog della Sprachpraxis Italienisch alla HHU!
CINZIA TANZELLA
NOTA: „Sono nato, sono venuto a Roma, mi sono sposato e sono entrato a Cinecittà. Non c’è altro.“ (F.Fellini) Con questa citazione di F. Fellini si apre “L’alfabeto di Federico” di Oscar Ianussi, un glossario felliliano contenente le definizioni di ventitré parole-chiave, indicatrici della poliedrica personalità del regista, lettura consigliata!
„Sono nato, sono venuto a Roma, mi sono sposato e sono entrato a Cinecittà. Non c’è altro.“
Non possiamo non meravigliarci della modestia che traspare da questa citazione pronunciata dall’artefice di una trentina di pellicole cult, il regista Federico Fellini.
Con Federico Fellini non sono nate solo opere d’arte filmiche, fonte di ispirazione e oggetto di studio di tanti registi e attori nazionali ed internazionali, ma anche neologismi della lingua italiana come felliliano, vitellone, paparazzo, dolce vita e amarcord, che hanno contribuito a diffondere vari cliché sull’Italia e sugli italiani in tutto il mondo.
Se da un lato questi rimandano a stereotipi di connotazione negativa, (il concetto di la dolce vita viene spesso interpretato come metafora di ozio, l’immagine del vitellone come il tipico italiano scansafatiche, mammone e latin lover), d’altro canto questi cliquè hanno reso internazionale l’espressione fotografica ed estetica della genialità artistica italiana.
Federico Fellini è probabilmente il regista italiano più conosciuto fuori dal proprio paese, è stato vincitore di 5 premi Oscar, è stato la voce che ha raccontato al mondo dell’Italia dagli anni ’30 agli anni ’90, partendo dal Fascismo per arrivare a descrivere il caos e il disorientamento degli anni ’90.
Nato a Rimini nel gennaio del 1920, quest’anno ne ricorre il centenario della sua nascita. Una strana coincidenza, proprio nell’anno più strambo dell’ultimo secolo, l’anno dell’inaspettato Covid-19, che sembra essere sorprendentemente idoneo a riscoprire il Fellini visionario, bravo a raccontare del caos, del sogno, dell’abnorme e dei bizzarri comportamenti di massa.
È dunque il momento giusto per riscoprirlo, riavvicinarsi alla sua poetica, apprezzare i suoi film. Federico Fellini credeva che l’arte potesse fare miracoli, trasformare la sconfitta in vittoria, la tristezza in felicità. Ma per poter afferrare questa chance, sia come artista che come fruitore, bisogna essere nella predisposizione giusta, saper applicare una certa igiene di “mente” o di “spirito”, a cui allude lo stesso Fellini già negli anni ‘80 nella sua biografia “Fare un film”. Di fronte al caos scaturito dall’uso incontrollato e commerciale della televisione e dei media scrive: “Sarebbe forse il caso che ogni tanto e per periodi lunghi, la televisione restasse spenta, la radio tacesse, i giornali smettessero di uscire, in modo che ognuno tornasse ad avere il tempo di occuparsi veramente di sé stesso, della propria individualità, magari soltanto per rimettere insieme i pezzi, i brandelli.”
Non dovremmo farlo anche noi prendendo le distanze dalla confusione generale di un’opinione pubblica resa insicura dalle proteste dei negazionisti e complottisti, dalle testate appariscenti dei giornali alla ricerca disperata di espedienti per richiamare l’attenzione di un pubblico ormai coinvolto personalmente nella diffusione di notizie ed opinioni attraverso i social media?
Alcuni dei film più importanti di Federico Fellini possono fare da specchio nel mostrarci scenicamente il caos – si pensi ad “Otto e mezzo”, allo smarrimento di Guido Anselmi di fronte alla produzione artistica del suo prossimo film, alla confusione nella sua vita privata. “Otto e mezzo” è un film di ricordi, sogni, dubbi ed incertezze, dove alla fine affiora la voglia di ritornare alla gioia ingenua e primitiva dell’essere bambini. Non è quello che desideriamo oggi anche noi, dopo tutte le varie forme di limitazione anticovid che condizionano la nostra vita?
Nei film di Fellini possiamo scorgere anche l’origine di fenomeni del presente; si pensi ai truffatori in “Il bidone”, ai loro furbi espedienti, precursori di truffe moderne, non molto diverse da quelle si attuano oggi in internet. Altri film di Fellini ci lasciano invece perplessi, pieni di domande aperte, si pensi a “Casanova” o a “La città delle donne”.
Gli studenti della laurea magistrale Italienisch e Romanistik: Kulturkontakte und Kommunikation presentano qui le loro prime impressioni spontanee dopo la visione dei film di Federico Fellini. Non si tratta dunque di contenuti che fanno riferimento a saggi critici o a una specifica letteratura secondaria, ma brevi testi ispirati da scene o frasi che hanno colpito in particolare l’attenzione degli studenti-spettatori, per la maggior parte appartenenti a una generazione cresciuta in un altro contesto storico-culturale, molto lontano ideologicamente, economicamente e culturalmente da quello in cui sono nate le opere felliliane.
I film presi in esame sono: “Le notti di Cabiria”, “La Strada”, “Giulietta degli Spiriti”, “La dolce vita”, “Otto e mezzo”, “Fred e Ginger”.
Per facilitare la comprensione cliccando sull’apposito link troverete i testi dei podcast.
Buon ascolto e a presto sul Blog della Sprachpraxis Italienisch alla HHU!
CINZIA TANZELLA
NOTA: „Sono nato, sono venuto a Roma, mi sono sposato e sono entrato a Cinecittà. Non c’è altro.“ (F.Fellini) Con questa citazione di F. Fellini si apre “L’alfabeto di Federico” di Oscar Ianussi, un glossario felliliano contenente le definizioni di ventitré parole-chiave, indicatrici della poliedrica personalità del regista, lettura consigliata!
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Ce l’abbiamo fatta! Le lezioni del semestre più imprevedibile si sono concluse. Dopo una breve vacanza mi permetto di fare mente locale su quello che ci lasciamo alle spalle. Per tredici settimane ci siamo sentiti in Zoom, abbiamo chattato in Rocket Chat e abbiamo tenuto una fitta corrispondenza per e-mail. Alcuni di voi si sono connessi puntualmente la mattina alle ore 8.30 per le lezioni in videoconferenza, a volte senza webcam o con una connessione lenta; altri hanno lavorato individualmente consegnando puntualmente i compiti settimanali e seguendo le precise indicazioni contenute nelle mie slides con audio o video.
Pensavate di non farcela all’inizio, vero? Era tutto diverso dal solito, inondati da una marea di informazioni provenienti da diversi mittenti sul cosa fare, sul dove, su quale portale lavorare, fino a quando, con date di scadenza scandite da ILIAS, a inizio semestre avete dubitato di farcela. Alcuni hanno effettivamente interrotto gli studi. Invece voi, proprio voi che state leggendo questo post, ce l’avete fatta! Anzi, ce l’abbiamo fatta. Abbiamo fatto e raggiunto quello che dovevamo fare e volevamo raggiungere prima del lockdown, però con altri mezzi (iniziando la giornata davanti al nostro schermo, magari solo dieci minuti dopo esserci alzati, usando la tastiera al posto della penna, a volte alla ricerca disperata del tasto giusto per l’accento o l’apostrofo) e in un altro luogo da quello previsto (non dal campus, ma da casa, dando addirittura una sbirciatina nelle camerette o nelle cucine altrui).
In ogni caso tirando le somme si può dire che è stato un semestre in cui abbiamo imparato tanto, e non intendo solo le nozioni teoriche sulla lingua italiana né tantomeno la pratica del parlato e dello scritto nella lingua straniera. Abbiamo dovuto fare i conti anche con altro, con:
l’autodisciplina, imparando a lavorare autonomamente ed entro termini definiti;
una nuova routine da creare secondo ritmi propri di lavoro e in un angolino in casa, in cui riuscire a concentrarsi prendendo le distanze dalle circostanze esterne o da quelle familiari;
l’automotivazione, scavandoci dentro alla ricerca del filo conduttore che ci porta a fare anche quello che ci pesa, all’identificazione dei nostri obiettivi, che a volte, mentre si fa quello che si deve fare, si perdono di vista. Perché facciamo certe cose, dobbiamo farle o lo vogliamo veramente? – Vi sarete posti sicuramente queste domande all’inizio del semestre, perché senza chiarezza di obiettivi non ci si può imporre di lavorare disciplinatamente;
la capacità di reagire con elasticità ai cambiamenti e alle limitazioni imposte dall’esterno e la capacità di adattamento a una nuova quotidianità universitaria;
l’uso compente e mirato di mezzi (computer, tablet, smartphone) per l’apprendimento digitale a distanza, che nell’era prima del Coronavirus erano ritenuti opzionali per l’apprendimento. Io d’altronde ho finalmente raggiunto l’obiettivo di lavorare senza fotocopie e finalmente smettere di pulire lavagne bianche luciccanti che mi lasciavano macchie incancellabili e vecchie lavagne verdi polverose usate da altri docenti che mi facevano puntualmente starnutire(!).
Sono mancati i contatti sociali. Questo è stato il punto dolente. Mi auguro che questo ci abbia fatto riflettere sull’importanza dell’interazione quotidiana con gli altri, sulla presenza fisica degli altri nella nostra vita, nello specifico nell’aula a lezione, nei corridoi, per le vie del campus, in caffetteria. Colleghi di studio o docenti, chi ci è mancato? Chi non ci è mancato e perché? Quanto sono importanti effettivamente i rapporti sociali nella nostra quotidianità universitaria?
Altrettando degno di considerazione è stato un cambiamento nel nostro atteggiamento verso l’ovvietà del quotidiano a cui prima eravamo così abituati da non farne più caso, come se nessuno avesse mai potuto privarcene. Intendo banalità come uscire di casa la mattina e andare all’università con un mezzo pubblico, muoversi liberamente in città senza il panico di essere troppo vicini agli altri, andare a fare la spesa senza pensieri strani per la testa e senza mascherina. Ora sappiamo apprezzare quello che avevamo prima.
Insomma il semestre estivo è stato anche un semestre di riflessione.
Il prossimo semestre potremo continuare a lavorare arricchiti e più forti. Forse avremo ancora altro da imparare.
Mi preme ancora concludere con un ultimo spunto di riflessione, un aspetto da non sottovalutare.
Il primo vero obiettivo dei corsi di italiano è di imparare a parlare a scrivere correttamente in lingua straniera, e a questo ci abbiamo lavorato assiduamente, settimana per settimana, con tecniche e metodi diversi. La pratica della lingua scritta ha prevalso nelle chat, in ILIAS, della lingua parlata nelle videoconferenze. È stato un semestre produttivo, in cui avete indubbiamente raggiunto un buon livello di conoscenza della lingua italiana. Vorrei ricordarvi che – non dimenticatelo mai- il vero grande obiettivo nell’imparare una lingua straniera è quello di padroneggiarla per conversare, interagire in quella lingua sia in ambito lavorativo che in un contesto privato. Acquisire un BN o superare l’esame con un bel voto sono traguardi importanti nel percorso universitario, sono un riscontro oggettivo sulla quantità di teoria appresa e studiata, ma l’obiettivo principale è ben più alto ed è su questo che dovete sempre puntare.
Non pensate che la distanza fisica creata dalle lezioni digitali possa essere un ostacolo per questo obiettivo. L’apprendimento per via digitale e online è in realtà una grande fortuna perché permette di lavorare da casa, in un ambiente familiare in cui ci si trova a proprio agio, come se si fosse in un laboratorio linguistico personale, in cui vengono esercitate tutte le abilità linguistiche. Solo ancora un soggiorno in Italia può aiutarvi a trasformare le vostre conoscenze in comunicazione viva e vissuta. Per fare questo nel frattempo lavoriamo a lezione simulando situazioni comunicative e rafforzando le strutture grammaticali.
Perché andare all‘estero con l’ERASMUS per un anno? Perché andare da sola in un paese straniero di cui non conosci gli abitanti e dove non parli bene la lingua? Per quale motivo vivere in una parte del mondo dove la cucina, la cultura e il modo di vivere sono completamente diversi da ciò che ti è familiare?
Certo, è un pensiero strano, forse sembra essere pericoloso. Ma è eccitante.
Ci vai a causa dei tramonti invernali italiani che puoi guardare dal quarto piano della residenza Cardarelli. Sono così mozzafiato che ogni volta il cuore ti salta fuori dal petto.
Tramonto a Viterbo
Devi andarci a causa delle tranquille notti estive a Roma, città turbolenta di giorno, dove l’aria è così calda e silenziosa che ti senti come se non fossi fuori, ma in una stanza infinita.
Ci vai a causa della semplice pasta al pomodoro che hai mangiato migliaia di volte in Germania, e comunque preparata da Jacopo ha un sapore così diverso, come se fosse un piatto completamente nuovo.
Perché ogni giorno conosci una nuova faccia, condividi una nuova storia di vita. Perché fai amicizia con persone che vengono da paesi di cui non sai quasi niente.
Perché dopo pochi mesi ti rendi conto che tutto d’un tratto non hai più bisogno di scrivere delle parole sconosciute prima di fare una telefonata. Sono tutte qua, nella tua testa.
Perché all’improvviso puoi avere conversazioni molto profonde in italiano su qualsiasi argomento; un cambiamento che è venuto segretamente, silenziosamente mentre dormivi.
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